Vermiglio è un film dell’incanto, anche quando veicola esattamente l’opposto. È forse questo l’aspetto più sorprendente ed affascinante del secondo, notevole lungometraggio della trentina Maura Delpero, fresco vincitrice del Leone d’argento – Gran premio della giuria all’ultima Mostra del cinema di Venezia, il secondo premio per importanza nella gerarchia del palmarès, da oggi nelle sale italiane.
Siamo alla fine della seconda guerra mondiale a Vermiglio, villaggio di montagna in Trentino-Alto Adige, ultimo comune della val di Sole, storicamente zona di frontiera. In questo villaggio è nato il padre della cineasta e attraverso l’omaggio alla figura paterna e al luogo di nascita, emerge chiaro il ritratto di una comunità, delle sue gioie, piccole e grandi ma sempre momentanee, e delle sue grandi fatiche, amarezze, speranze troppo spesso deluse. E anche, con la stessa amorevole onestà, delle sue ipocrisie, omertà, ottusità.
Film sul confine e dunque sul crinale. Sempre. Tra pace e guerra, quiete e tempesta, angoscia e serenità, inconscio e presa di coscienza, valli e vette, realtà e onirismo. Al centro c’è una famiglia dominata da Cesare, maestro di scuola, figura fondamentale della comunità e padre di una figlia e un figlio grandi, di due figlie e un figlio piccoli, di un neonato e due piccoli che non ce l’hanno fatta, Flavio e Giovanni.